Nel vicolo al Leon d’Oro a Parma, in mezzo a diversi negozi, si trova una vetrina diversa: Display, che enfatizza l’incanto tecnologico con la trasposizione dell’irreale nel reale. Intervista a Massimo Allevato, co-fondatore di Dispaly.
a cura di Carlo Corona
Massimo Allevato, uno dei due fondatori di Display, racconta le visioni, le idee e le convinzioni che caratterizzano l’artist-run space a Parma.
Carlo Corona: Quali ragioni ti hanno spinto a inaugurare un project space? Come è nato lo spazio?
Massimo Allevato: Display è un artist-run/project space nato nel 2018, a Parma. È stato fondato da me, assieme a Perfettipietro. Io, uno dei più pigri e annoiati tra gli anyones, e da Perfettipietro, uno dei meno ambiziosi tra i wannabe artists, spocchioso e megalomane, ma anche insicuro, infantile e nerd, il perfetto ettapolare.
Ci siamo scoperti così, googlando, riconoscendoci nelle proiezioni dello schermo, facendoci trasportare dalle sindromi di Stendhal che le immagini suscitavano in noi.
Quando pensiamo a Display, alla sua nascita, non riusciamo a non pensare a un brufolo. Si, un brufolo. Credo sia nato così, come quando ti addormenti una sera con un leggero prurito e il mattino dopo eccolo lì: il brufolo.
Le ragioni della nascita del “brufolodisplay” sono pertanto oscure ai più, sebbene immaginiamo di conoscerle intrinsecamente, come sappiamo che ci chiamiamo Massimo e Perfettipietro e che ci piace la pastasciutta.
Dovevamo farlo. Credo basti questo. Uno spazio indipendente, se davvero vuole essere indipendente, deve nascere così. Come un brufolo.
CC: Quale insieme di visioni, idee e convinzioni lo caratterizzano?
MA: Display è una piattaforma per lanciare sogni e visioni nel formato di immagine analogica.
Il nome stesso è un omaggio al nostro mentore, sua eminenza “lo schermo di un computer”, veicolo delle più diverse declinazioni dell’anima, educata credendo di essere una e cresciuta sentendo di essere tante.
Ed in effetti Display si presenta così, come un grande televisore sulla strada, con una vetrina al posto dello schermo.
Per noi è come un giano bifronte: quando me ne impossesso io diventa un project space, uno spazio dove altri artisti possono proporre piani e idee che prendono le sembianze di opere e mostre.
Quando entra in campo Perfettipietro, lo spazio diventa il suo atelier a vista, lo sguardo nella coscienza e nelle fantasie di un artista bambino e senza ambizioni, sempre alla ricerca di sé e di gesti di fiducia, come segnali di fumo, segnali di chi passa, guarda e si riconosce, come davanti ad uno specchio.
CC: In che modo l’opera e il contesto entrano in relazione?
MA: Bella domanda, a cui deve solitamente rispondere l’artista che espone.
Noi crediamo nell’arte fine a sé stessa, e il nostro scopo è sempre stato solo ed esclusivamente quello di creare qualcosa che noi stessi avremmo voluto che esistesse.
L’arte, secondo noi, deve muovere da un’urgenza personale per poter diventare un simbolo universale. Display è fatto da noi e per noi solamente, così pensiamo che possa essere davvero condivisibile e democratico. Può sembrare un controsenso, ma solo quando ci si concentra innanzitutto su sé stessi si è poi in grado di includere gli altri. Il contesto e l’approvazione del pubblico sono solo delle conseguenze.
In pratica noi ci mettiamo la TV e le patatine.
CC: Come vengono selezionati gli artisti invitati a esporre? In che modo la tua formazione influenza il programma espositivo? Ci sono dei punti di riferimento particolari?
Nella scelta degli artisti seguite un discorso generazionale o approfondisci uno o più specifici linguaggi artistici? Quali tipologie di mostre ha ospitato il progetto finora?
MA: Qua uniamo le domande e diamo un’unica risposta.
Solitamente sono gli artisti a scegliere noi, sembra strano o presuntuoso, eppure è così! È anche capitato che fosse lo spazio stesso a prendere vita e proporre collaborazioni. Ascoltiamo i messaggi che ci arrivano dagli oggetti, dalla materia, dai colori, dalle immagini che spesso ci indicano la tendenza creativa. Crediamo molto nell’animismo degli oggetti e dei luoghi. Dimenticavo di dire che siamo autodidatti del mondo dell’arte.E non abbiamo un criterio arbitrario di selezione: facciamo e scegliamo solo ciò che ci piace, che ci parla della nostra storia o che ci mostra una parte inesplorata e nuova di noi. I like it! È il nostro motto. Tutto inizia sempre da una semplicissima domanda: Ci piace? Se ci pensate, il mondo non è poi così complicato.
E le persone sono molto meno misteriose di quanto credano di essere.
Display fino ad ora ha ospitato 19 progetti, uno spin off – il progetto Drag and drop, che porta lo spazio ad essere nomade e installarsi in location inusuali – ed ha partecipato a diverse fiere nazionali e internazionali.
CC: Quali sono i prossimi progetti in programma?
MA: Preferiamo non anticipare mai i nostri programmi. Crediamo nella freschezza delle idee e delle tendenze, perciò parlare di programmi mette un progetto immediatamente nel passato. Amiamo l’effetto sorpresa!
CC: Cosa vuol dire per te essere uno spazio indipendente? Quale ruolo ricopre nello scenario artistico? Qual è secondo te il futuro degli artist-run spaces?
MA: Anche qua uniamo le domande e diamo un’unica risposta.
Lo spazio indipendente per definizione dovrebbe essere incosciente. Tutte le storie alternative sono atti di coraggio. L’arte è mossa dal desiderio di esprimere la propria vera natura. Solo questo forte bisogno può portare in sé il coraggio di correre il rischio dell’ignoto. Non ci resta che essere coraggiosi dunque. Il resto verrà da sé. Io, ad esempio, speriamo che me la cavo (cit). E, d’altra parte, nessun vero fiasco è mai derivato dalla mera ricerca del minimo indispensabile.
CC: Come leggete il fenomeno dell’apertura di spazi gestiti da artisti che si sta diffondendo negli ultimi anni in Italia e che ciclicamente appare nella storia dell’arte del secondo Novecento? Quali potrebbero essere secondo voi i motivi?
Come vedete le realtà più fresche e significative del panorama italiano? Che opinione avete in merito ai passi che stanno compiendo i giovani artisti italiani, senza ricorrere a una schematizzazione?
MA: Uniamo le domande:
Adoriamo le citazioni, quindi vorremmo rispondere così: io penso che per segnare bisogna tirare in porta. Anche se è bene ricordare che solo un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri (Vujadin Boskov).
CC: Vi siete mai trovati in sintonia con lo spirito della vostra generazione?
MA: Ci piace la parola snio, crediamo contenga tutto. E poi ci sembra la risposta perfetta, fa chic e non impegna.
CC: Pensate si potrà parlare, come in passato, di una tendenza prettamente italiana?
MA: Italiani: PIZZA SPAGHETTI MANDOLINO. Quindi non credo, ma non si sa mai. SNIO.
CC: All’interno del sistema dell’arte gli spazi indipendenti svolgono il ruolo fondamentale di trampolino di lancio per l’emergere di nuovi artisti, idee e valori che difficilmente troverebbero respiro negli spazi istituzionalizzati. Da un lato vi è una forte spinta forte spinta all’innovazione, dall’altro il doversi confrontare con un sistema precario e instabile. Come vi ponete all’interno di questo clima? Potete contare su aiuti stabili?
MA: Display è un organismo al cui interno scorre solamente il sangue del nostro portafogli. All’inizio è stata una scelta obbligata (nessuno ci conosceva, nessuno conoscevamo noi), ma devo dire che, malgrado tutte le problematiche del caso, questo ci consente la massima libertà artistica. Certo, ci piacerebbe finanziare e supportare qualche progetto, ma crediamo nel potere della fantasia e dell’improvvisazione. È una palestra, una gavetta. Per gli artisti, così come per noi che li ospitiamo.
CC: Le ragioni che vi hanno spinto ad aprire uno spazio trovano poi riferimento nella scelta degli artisti e nella vostra programmazione curatoriale? Come si pone quest’ultima nei confronti delle tematiche socioculturali care al contemporaneo?
MA: Come abbiamo accennato precedentemente, la nostra stella polare è il valutare sempre se il progetto che ci viene proposto è in linea con il nostro gusto. Per noi conta solo quello. La programmazione curatoriale di Display credo si possa tracciare solo a posteriori, una sorta di Unisci i puntini. O almeno noi la vediamo così. Gli spazi indipendenti sono fortemente caratterizzati dalle personalità da cui vengono gestiti, mettere troppi paletti o seguire forzatamente una linea di pensiero e/o tematiche cosiddette (virgolette per aria) socioculturali rischia di togliere freschezza al progetto.
Ma, ehi, è solo il nostro modo di essere! Che ognuno trovi il proprio, noi abbiamo capito che funzioniamo così.
CC: In che modo i vostri progetti continuano nel tempo e si inseriscono in un discorso – sempre che lo facciano – di economia dell’arte? Quali sono le figure con cui entrate maggiormente in contatto?
MA: Non cerchiamo mai un ritorno economico nella preparazione dei vari progetti. Spesso sono state presentate opere totalmente “invendibili”, e questo ci sta più che bene. Quindi, per ora, economia e Display non vanno molto d’accordo. Ribadiamo, è un sacrificio e siamo consapevoli del fatto che non tutti siano in grado di sostenerlo. Forse siamo ingenui ma pensiamo a Display come se non dovesse finire mai, dopo ogni progetto ne viene un altro, e così fino a quando si potrà.
Entriamo maggiormente in contatto attivo con gli addetti ai lavori (artisti, curatori, giornalisti del settore), ma abbiamo la speranza di catturare chiunque inquadri Display nel proprio campo visivo.
CC: Sempre più frequentemente nelle città si fa sentire la necessità di aprire nuovi spazi di dialogo e ricerca. Che consiglio dareste a chi vorrebbe intraprendere questa strada?
MA: Siamo allergici ai consigli. A noi hanno sempre detto che non aveva senso aprire Display, un televisore artistico su strada, in una città per giunta un po’ fuori dai radar dell’arte contemporanea attuale (Parma), eppure dopo quattro anni siamo ancora qua.
Ci viene in mente la famosa e stra-abusata favoletta/teoria del calabrone, quella che dice che per la sua conformazione e per le leggi della fisica non potrebbe volare, eppure…
Vorremmo concludere citando una breve sequenza del film Proposta indecente, dove l’attore Woody Harrelson, nel ruolo di un docente di architettura, reggendo un mattone in mano, chiede agli studenti che cosa sia. “Un mattone” rispondono tutti. Allora il docente replica: «Louis Kahn diceva che un mattone vuole essere qualcosa: ha aspirazioni! Anche un comune e ordinario mattone vuole essere qualcosa di più di ciò che è! Vuole essere qualcosa di meglio di ciò che è! È questo che dobbiamo sentire anche noi».
Ricordati del brufolo.